La cultura della sicurezza merita di essere diffusa e promossa su più livelli.
Si può affermare che il problema della sicurezza sia anche culturale?
Certo che sì, e fino a quando nella forma mentis aziendale non avrà preso posto il concetto della sua importanza saremo costretti a fare i conti con pratiche a dir poco inadeguate. La cultura della sicurezza può essere descritta come la serie di pratiche di carattere organizzativo e di natura professionale di un’azienda; essa comprende anche i suoi modi di pensare il rischio, di percepirlo e soprattutto di rappresentarlo. Ma della cultura aziendale fanno parte anche convenzioni e norme, siano esse scritte o anche solo formali.
A che cosa serve la cultura della sicurezza?
Essa può essere considerata come il punto di riferimento per la condivisione delle pratiche di prevenzione e per la loro attuazione, per uno scopo primario: quello di guidare ogni tipo di comportamento, collettivo o individuale, in direzione della riduzione dei rischi. In un contesto di questo tipo comportamenti simili non hanno solo implicazioni di carattere economico, ma denotano un valore anche sociale ed etico. Ecco spiegato il motivo per il quale la prevenzione deve entrare a far parte, anche con una certa urgenza, nelle strategie di impresa, come un elemento indispensabile per il vantaggio competitivo, rispetto al quale può costituire perfino un fattore di impulso.
Come si può raggiungere questo obiettivo?
La cultura della sicurezza è, in un certo senso, in una fase primordiale: per questo motivo ha bisogno di maturare. Una strada che si può seguire è quella che conduce alla responsabilizzazione dei vari soggetti a cui le norme sono destinate. È altresì fondamentale operare una netta suddivisione delle competenze e dei ruoli nel contesto del processo organizzativo. Per fare in modo che la cultura della sicurezza si possa diffondere sul serio è necessario andare oltre la concezione per la quale la salute e la sicurezza sul lavoro possono essere tutelate unicamente con il rispetto degli obblighi di legge, soprattutto quando questo obbligo – e accade di frequente – viene interpretato e considerato come un peso, una fastidiosa incombenza che ha il solo effetto di rallentare o compromettere l’organizzazione.
C’è bisogno di un approccio diverso, allora?
Se è vero che la salute viene considerata da un punto di vista normativo un diritto fondamentale del singolo, è altrettanto vero che la sicurezza sul lavoro è anche un concetto sociale. Si tratta, insomma, di soddisfare quello che è prima di tutto un interesse per tutta la collettività. In altre parole, la protezione e la tutela della sicurezza sul posto di lavoro non devono essere un riferimento unicamente per il singolo, ma anche per la dimensione collettiva. Si deve passare, allora, da un sistema che si fonda sulla prevenzione delle malattie a un sistema che si focalizza prima di tutto sulla protezione della salute, da considerare come uno stato di benessere complessivo che riguarda il fisico e la psiche.
Si può definire olistico questo approccio?
Certo che sì, fermo restando che il singolo rimane sempre il fulcro delle azioni di tutela, come previsto dalla normativa nazionale e internazionale più recente. Gli interventi e le azioni devono essere adattati alla collettività, e quello che ne scaturisce è – appunto – un approccio olistico nei confronti della prevenzione. La salute non deriva solo da specifici parametri medici, ma è anche il risultato di fattori sociali e culturali che hanno a che fare con le emozioni e con gli stati d’animo, per una sfera soprattutto intima.