Chiunque abbia in mente di scrivere il proprio curriculum vitae sa bene che si troverà di fronte a una lunga serie di difficoltà. In primo luogo, è indispensabile risultare sintetici e il più possibile chiari, ma per essere concisi non si può trascurare alcuna informazione utile. Al di là del contenuto, poi, ci si deve preoccupare della forma, ipotizzando un’impaginazione che si riveli intrigante senza compromettere la leggibilità. I dubbi e le complicazioni aumentano per le persone disabili, che si chiedono se occorra o meno parlare del proprio handicap nel cv. Le ansie che sorgono a questo proposito sono facili da intuire: da un lato c’è il desiderio di essere onesti, anche per evitare di perdere tempo con colloqui inutili; dall’altro lato c’è il timore di spaventare i selezionatori.
Meglio essere sinceri
Il consiglio è quello di essere chiari e sinceri sin dal primo momento, non solo per una questione etica, ma anche per motivi pratici. Un’azienda che non è interessata ad assumere persone disabili non cambia di certo idea se viene a conoscenza dell’handicap di un candidato al momento di un colloquio. Vale la pena, dunque, di specificare la propria percentuale di disabilità, magari precisando se essa è causa di problemi o inconvenienti (per esempio dal punto di vista degli spostamenti) o meno.
Il mondo del lavoro è aperto ai disabili?
Secondo i dati Istat, la disabilità incide in misura significativa rispetto all’esclusione dal mondo del lavoro. Tra i soggetti di età compresa tra i 15 e i 64 anni con disabilità, meno di 1 su 5 è occupato, mentre la media nazionale è di quasi il 60 per cento. Tra le persone disabili, poi, raddoppia la quota di inattivi: si parla di circa il 70 per cento, mentre nel resto della popolazione si supera di poco il 30 per cento. Viene spontaneo domandarsi, tuttavia, perché ciò avvenga, visto che da più di due decenni esiste una legislazione ad hoc dedicata alle persone disabili e al loro diritto al lavoro. Un diritto che non solo viene disciplinato, ma è anche protetto dalla legge 68 del 1999.
Che cosa prevede la legge
Lo scopo di questo provvedimento, come viene messo in evidenza dal primo articolo, è quello di favorire l’inserimento nel mondo del lavoro delle persone disabili e la loro integrazione, tramite servizi di collocamento e di sostegno. Gli obblighi di legge impongono che ci debba essere, nelle aziende, un disabile ogni 15 persone assunte. Tuttavia, la stessa normativa non indica quali ruoli possono e debbono essere ricoperti dai disabili, che – quindi – non di rado vedono sminuite le proprie capacità o sono costretti a occuparsi di mansioni di secondaria importanza. Dalla teoria alla pratica, insomma, il passaggio è quasi traumatico, poiché è una prassi alquanto diffusa quella di attribuire un ruolo marginale a una persona handicappata: magari non perché non ci si fida, ma solo perché si ha paura che, in caso contrario, il lavoro verrebbe rallentato.
Perché i disabili vengono discriminati nel mondo del lavoro
Nel 2018 è stata modificata la legge che imponeva l’obbligo di assunzione di persone disabili unicamente nel caso di ulteriori integrazioni all’organico. Tali cambiamenti hanno determinato le proteste dei piccoli imprenditori, che si sono ribellati sostenendo il loro diritto ad assumere dipendenti capaci di assicurare loro il miglior risultato possibile. Tuttavia, il loro punto di vista non era quello giusto: non si dovrebbe assumere una persona disabile solo per aiutarla o per farle un favore (oltre che per rispettare la legge e non subire sanzioni), ma perché essa può avere competenze identiche o migliori di quelle di un normodotato.
I disabili sono qualificati: provare per credere
Il grande paradosso italiano è che in molte circostanze i soggetti portatori di handicap sono qualificati e competenti, complici gli incentivi pubblici che vengono forniti ai disabili per consentire loro di studiare. Per esempio, nella maggior parte delle più importanti università del nostro Paese si ha diritto a un esonero totale o parziale dal pagamento delle tasse universitarie nel caso di una disabilità di almeno il 33 per cento. Come si può dedurre, allora, lo Stato spende – e molto – denaro per assicurare la formazione di figure professionali che, tuttavia, non vengono messe nelle condizioni di sfruttare le proprie capacità.